Dal buio di uno scaffale alla vetrina di una libreria
Nella nostra storia di persone, ci sono periodi che possono essere etichettati con titoli di libri. Quando sei adolescente ci sono libri che tutti leggono o, almeno, ti consigliano. Ai miei tempi i miei coetanei del liceo, soprattutto le coetanee, spesso consigliavano un autore che poi è sparito per le generazioni successive, Leo Buscaglia e il titolo che andava per la maggiore era il suo Vivere, amare, capirsi. Chi poi non si è mai visto ricevere o ha pensato di regalare una copia di Siddharta? Prima di me molti ragazzi e ragazze avevano sentito parlare del libro di Fromm, L’arte di amare e ancora un po’ prima, i giovani nati negli anni Cinquanta e primi anni Sessanta (ovvero gli adolescenti e giovani adulti degli anni Settanta) hanno probabilmente avuto come titolo dei loro tempi un altro libro di Erich Fromm, Avere o essere.
Con grande sorpresa e curiosità, durante il secondo lockdown, quando le librerie erano aperte, nel passare davanti alla vetrina di una di esse nella mia città, vidi in bella mostra un certo numero di copie di quel volume, che mesi prima avevo faticato a trovare, nascosto in fondo a uno scaffale e in una sola copia.
Ho pensato che fosse significativo che un testo del genere, ormai dimenticato, fosse tornato tanto in auge da essere esposto, con una copertina tutta nuova, che ne tradiva la sua ristampa.
Dal banchetto della fiera del libro usato alla vetrina della libreria!
Forse che il lockdown ci aveva fatto riscoprire un testo e un autore degli anni Settanta al punto da farlo diventare attuale e di nuovo di moda?
Forse sì. Certamente la pandemia ci aveva portato più lontano dalle cose concrete e più vicino a quelle astratte; salvo ora rientrare nelle routine una volta, ormai liberi da mascherine e dalla paura dei contagi e della malattia, e riprendere con esse l’abitudine di cercare cose da fare, da indossare, da esibire, da possedere e da condividere.
Avere o essere
Ma cosa racconta From nella sua teoria che ha messo al centro questi due verbi, «avere», «essere», legati tra loro dalla disgiunzione «o», a sottolinearne l’incompatibilità.
Fromm sostiene che possiamo definire due modalità della esistenza umana.
La modalità dell’avere è quella che attiene al possesso e alle cose. Fromm identifica questa modalità con il consumismo da un lato e con il potere di una persona sull’altra dall’atro. Le relazioni incentrate sull’avere sono asimmetriche, prevedono il controllo dell’altro, ma non solo, anche della natura, e la loro sottomissione.
La modalità dell’essere invece attiene a una dimensione interna e più profonda. L’essere non è solo l’identità (io sono alto, io sono uno psicoterapeuta, io sono un uomo e così via), ha a che fare con l’esistere e con l’autenticità dell’essere persone. «Essere» pertanto comporta l’autoconsapevolezza della propria identità, dei propri bisogni, delle proprie emozioni, dei propri pensieri.
Queste due modalità Fromm le definisce incompatibili, e se ne può comprendere la ragione, e le utilizza per descrivere sia la società sia le relazioni tra persone sia le persone stesse.
La modalità dell’essere dunque è interna, intima. Una relazione interpersonale basata sull’essere è una relazione non di dominio, ma di parità, di ascolto e di attenzione all’altro in una cornice di fiducia e autenticità.
La modalità dell’avere è al contrario esterna, basata sull’immagine, sullo status, sull’apparire e comporta pertanto relazioni meno profonde e autentiche tra le persone. Prevede sempre che una parte prevalga sull’altra, al punto di trattare le persone come oggetti. La modalitùà dell’avere si basa sulla disuguaglianza e sulla competizione.
Alla luce di questa descrizione, certamente non esaustiva e fin troppo semplice, possiamo però pensare come la pandemia ci abbia tolto, con i suoi limiti e regole, molte cose e ci abbia al tempo stesso portato a riflettere su noi stessi e sull’importanza delle relazioni. Improvvisamente catapultati nel mondo dell’essere.
L’orologio del neuropsicologo
Nel 1983 Benjamin Libet, assieme ad altri suoi colleghi, fecero un interessante esperimento.
Chiesero a delle persone di indicare su uno oscilloscopio fatto a forma di orologio, dove un punto luminoso si spostava in senso orario, il momento in cui decidevano di muovere il dito della mano destra. Le persone erano monitorate sia a livello dei muscoli della mano e dell’avambraccio sia a livello dell’attività cerebrale.
Quello che scoprirono i ricercatori fu che i centri motori del cervello dedicati al movimento del dito si attivavano in media 300 millisecondi prima dell’indicazione delle persone della volontà di muovere il dito stesso.
Fu una sorpresa. Sembrava che il libero arbitrio non esistesse, che il nostro cervello comandasse la nostra volontà.
Non siamo noi che muoviamo il dito, ma il nostro cervello lo fa prima di noi!
Il processo della volontà che conoscevamo fino a quel momento si era rovesciato. Tutti noi infatti siamo convinti che prima esprimiamo la volontà di muovere una qualsiasi parte del corpo, poi dal cervello parte l’impulso fino ai nostri muscoli. L’esperimento mostrava il contrario, prima parte l’impulso dal cervello per muovere i nostri muscoli e poi noi percepiamo la volontà di farlo. Tra l’attività del nostro cervello e la volontà passa un tempo infinitesimale, solo 300 millisecondi, ma è pur sempre antecedente e, secondo i criteri di trasmissione del segnale nel cervello, non è neppure un tempo breve.
Ma le cose stanno davvero così? Siamo dei burattini comandati dal nostro cervello?
In verità la cosa potrebbe essere vista in un altro modo, come studiosi successivi hanno potuto mostrare.
Il nostro corpo tende ad agire, per cui la volontà e la consapevolezza regolano questa tendenza all’azione bloccandola. Noi abbiamo la libertà di dire no, più che quella di fare.
È come se guidassimo un’automobile con il freno: di base l’automobile ha l’acceleratore sempre pigiato e tende a muoversi, noi regoliamo la sua andatura premendo sul freno e non sull’acceleratore.
Lo strano caso del signor Phineas Gage
Phineas Gage era un diligente caposquadra delle ferrovie che lavorava nel Vermont, quando, un pomeriggio del marzo del 1848, mentre si accingeva con una barra di ferro a posizionare l’esplosivo per fare lo scavo dove sarebbero stati posati i binari, improvvisamente la polvere da sparo si incendiò, per una scintilla dovuta allo sfregamento della barra sulla roccia, provocando un’esplosione.
La barra che stava utilizzando, come un proiettile gli trapassò la mandibola e l’orbita sinistra, uscendo dal cranio. Fu subito soccorso e visitato da due medici. Un miracolo: nonostante la ferita grave Phineas riusciva a parlare, riconobbe suo zio ed era cosciente.
Una volta guarita la ferita, e dopo un periodo di convalescenza e riabilitazione, sembrava però un’altra persona. Da responsabile e bravo caposquadra, pacato ed educato, si era trasformato in una persona irosa: agitato, irriverente e prodigo di bestemmie. Incapace di mantenere un lavoro, si incaponiva su progetti che poi abbandonava così come li aveva intrapresi e non ascoltava i consigli di colleghi e amici.
L’opposto di prima dell’incidente, incapace di trattenersi e regolarsi.
Questo cambiamento però permise a chi studiava il cervello di raccogliere molte informazioni sulla funzione delle parti lese. Molte ipotesi sono state fatte sul caso di Phineas Gage, che poi sono state convalidate nel tempo da studi fortunatamente non solamente su casi clinici, e si è così trovata conferma che la parte frontale e prefrontale del nostro encefalo è deputata a regolare le emozioni, a sviluppare progetti, a regolare e trattenere i comportamenti, a sviluppare il pensiero astratto.
Il freno di cui parlavo prima sembra essere appunto in questa zona del nostro cervello e, al tempo stesso, ecco un’ulteriore conferma del fatto che siamo nati per fare e poi, per trattenerci dal non fare.
Fare e stare
Scoprire questa nostra modalità di default, tesa all’azione, ci permette di capire come abbiamo una tendenza a reagire a tutto ciò che ci circonda. La nostra natura sta nel fare e non nel fermarsi. Così, per esempio, non ci accorgiamo di consultare in modo continuo lo smartphone, oppure rispondiamo immediatamente a una offerta che ci viene posta come improrogabile. L’istinto ci porta ad agire in modo automatico.
In questo modo viviamo spuntando liste di cose da fare, senza fermarci a pensare, ma reagendo a quanto ci viene chiesto. Questa modalità del fare è inconsapevole, automatica, ma questo non vuol dire che non bruci energie nervose e non comporti un malessere, portandoci a sentirci insoddisfatti e coinvolti in compiti che consumano tempo prezioso senza dare soddisfazione.
Così, per esempio, compriamo cose su cose, oppure scorriamo foto e post (come forse anche questo) sui social senza accorgerci di quanto tempo abbiamo perso sullo smartphone, sentendoci poi frustrati.
La modalità del fare e la modalità dell’avere si uniscono in un pericoloso circolo vizioso.
Fermarci, trattenerci dall’agire, stare nel tempo presente sono invece le modalità proprie dell’essere, ma anche della consapevolezza.
Così, fermarsi a gustare il sapore del nostro cibo preferito, notarne la forma, l’odore, la consistenza, invece che mangiarlo in un sol boccone, magari pensando all’impegno che viene dopo, significa trattenere la nostra tendenza verso il fare, significa stare, significa essere.
In altri post ho trattato i benefici dello stare nel qui e ora, oppure di quanto sia importante vivere il presente e tutti i tempi della nostra esistenza e come sia possibile imparare a sostare e combattere così lo stress e la nostra tendenza ad agire.
Essere, stare e sostare divengono così i verbi della nostra consapevolezza e della pienezza di una vita che può essere vissuta anche momento per momento e che, a un certo punto della nostra storia, con i lockdown, siamo stati costretti a vivere, con le fatiche dei limiti, con la paura della malattia, ma anche con l’occasione della consapevolezza.
Ora Fromm non è più in quella vetrina, ora troviamo di nuovo i libri sui viaggi, le guide alla città. I turisti si spostano in gruppo da un monumento all’altro e da un ristorante all’altro.
Nella mia città si muovono autobus aperti che corrono per le vie del centro con persone che suonano e passeggeri che cantano, ignari dei palazzi che li circondano.
Tutto ciò sembra un ritorno alla vita, ma lo è veramente o è solo un ritorno al fare e all’avere?