Chi sono io? Se provate a rispondere a questa domanda, facilmente vi troverete a citare diversi aspetti, come il fatto di essere un uomo o una donna, di essere un medico, un avvocato, un impiegato/a, un imprenditore o imprenditrice, un informatico/a, di essere un padre o una madre, di essere uno studente o una studentessa, di essere alto/a, sportivo/a, di essere giovane o maturo/a… Tantissime sono le caratteristiche che potremmo citare per descriverci e per dare una definizione di noi stessi.

Quello che dal punto di vista psicologico le accumuna è che, per quanto possano essere numerose, queste caratteristiche riguardano aspetti che mettono in gioco il nostro «essere con gli altri» o il fatto di occupare una posizione all’interno di un sistema sociale o esercitare un ruolo sociale.

Un altro aspetto importante della psicologia è che noi siamo noi in una continuità: ovvero, per quante descrizioni variegate possiamo fare di noi stessi, queste non le percepiamo come frammentate, ma come continue nel tempo, in un senso di unità del nostro Io che è coerente e costante, tanto da meravigliarci sempre quando, guardando una foto nostra di parecchi anni fa, ci vediamo fisicamente diversi, ma non ci sentiamo diversi.

La costruzione dell’idea di noi stessi deriva dalle informazioni che riceviamo da 3 fonti principali:

  1. La nostra esperienza: le cose che facciamo ci dicono molto di noi. Se lavoro in un ufficio mi definisco un impiegato; se studio, uno studente ecc. Al punto che possiamo chiederci, per esempio, se siamo moderati perché votiamo un partito moderato o votiamo un partito moderato perché siamo moderati. Una certa psicologia sociale sosterebbe la prima ipotesi. Quello che facciamo ci fornisce informazioni su chi siamo.
  2. La nostra posizione sociale e le persone che frequentiamo. C’è un vecchio detto: «Dimmi con chi vai e ti dirò chi sei» che, proprio nella saggezza popolare, ben esprime questa dimensione del nostro essere. I gruppi a cui apparteniamo ci forniscono informazioni su noi stessi, e vanno a definire quella che un famoso psicologo sociale di nome Henri Tajfel ha chiamato identità sociale, ovvero quella parte della nostra identità che deriva dal fatto di appartenere a un certo gruppo.
  3. Gli altri. Prima di tutto quelli che possiamo chiamare gli «altri significativi»: le figure di riferimento della nostra vita, a partire dai nostri genitori, l’insegnante preferito, l’amico o amica del cuore, il compagno o compagna di vita, il mentore sul lavoro, ecc. Le persone ci forniscono in modo diretto o indiretto dei feedback, delle informazioni su come ci vedono, quale opinione hanno di noi, e questo va a influenzare e arricchire l’idea che noi stessi abbiamo di noi.

Di questi tre aspetti quello su cui vorrei soffermare l’attenzione è il secondo, ovvero l’identità sociale. Questo perché a mio avviso il mondo in cui oggi viviamo ha portato a una certa crisi della nostra identità, una crisi che però riguarda gli aspetti legati all’appartenenza.

Il mondo in cui viviamo è molto diverso da quello del passato, anche di un passato recente, molto recente, direi che una svolta significativa si è vista alla fine degli anni ‘80 del secolo scorso.

I sociologi, gli economisti e gli scienziati sociali parlano di post-modernità, ovvero di un mondo senza più confini e senza più istituzioni a mediare tra gli individui e gli stati. Questo mondo ha però comportato un notevole cambiamento non solo a livello sociale, ma credo anche a livello di identità individuale.

Uno dei maggiori studiosi della postmodernità (che potremmo definire la dimensione sociale della globalizzazione, più orientata invece agli aspetti politico-economici), Ulrich Beck, ha visto nella scomparsa delle istituzioni una frammentazione della società dove tutti possono in fondo diventare tutto, ma dove questo comporta un aumento del rischio nel progettare la propria vita. Mentre nelle società premoderne, il fatto di nascere all’interno di un determinato ceto sociale, comportava un percorso di vita definito, ora, con la scomparsa dei confini, non solo tra ceti, ma anche tra nazioni, l’individuo si ritrova, solo, a dover scegliere nel progettare la propria vita. Questo certamente dà grandi possibilità, ma anche una maggiore probabilità di fallire nel proprio essere.

La scomparsa dei confini e la solitudine sono il tema anche di un altro autore, Zygmunt Bauman, che ha infatti definito la società «liquida» (e non solo quella, anche le relazioni e le persone sono diventate «liquide): senza più percorsi di vita tracciati, senza più confini, e anche l’essere umano viene visto qui in una condizione di solitudine e in una società frammentata.

Infine Richard Sennet getta una luce sulle conseguenze psicologiche di questa frammentazione e perdita di confini attraverso la definizione dell’uomo flessibile, ansioso e incerto, che si muove adattandosi all’interno di un sistema senza confini e senza strade o percorsi predeterminati. Le stesse organizzazioni produttive, un tempo improntate su strutture che ospitavano i propri dipendenti dall’entrata del mondo del lavoro alla loro uscita, diventano organizzazioni senza confini, dove la permeabilità comporta che ognuno sviluppi una carriera che passa attraverso l’appartenenza a più organizzazioni con percorsi di carriera che possono comportare molteplici entrate e uscite; si comincia in una impresa, magari con uno stage, poi si passa a un’altra con un contratto di un paio di anni, poi a un’altra ancora, per rientrare, magari a un livello diverso in una delle precedeti organizzazioni, poi magari si passa un periodo come libero professionista o consulente, per poi riprendere un impoego a tempo indeterminato…

Tutto questo, dal punto di vista psicologico, incide sulla nostra identità sociale. Non apparteniamo più a gruppi o istituzioni che vanno a definire parte della nostra identità, ma ci ritroviamo come spiazzati, dentro a un mondo complesso che comporta un modo di rappresentarsi altrettanto complesso. Non più operai, impiegati, quadri, ma persone che costruiscono la propria identità attraverso altre modalità di appartenenza.

E allora ecco le tribù alimentari (i vegetariani, i crudisti, i vegani, i fautori della dieta primitiva…) oppure le appartenenze per altri stili di vita o comportamenti di consumo, e così nascono i ducatisti, gli alfisti… Poi i gruppi virtuali di Facebook, che nascono e si sciolgono sulle più disparate basi, dalla passione per una canzone, a quella per un’idea, o un modo di comportarsi. Ricordo che nella mia città c’era su una strada trafficata un tombino che emetteva del funo dovuto al teleriscaldamento, ebbene, si formò un gruppo Facebook del tombino fumante (sic!).

L’appartenenza a un gruppo rimane importante per la nostra definizione identitaria e anche per la nostra autostima. Appartenere infatti a un gruppo che socialmente è riconosciuto con uno status positivo contribuisce alla nostra buona autostima, ma al tempo stesso, anche appartenere a un gruppo minoritario comporta il tentativo di legittimarlo positivamente, in modo da sostenere sia il gruppo sia una visione positiva di sé, come mostrano le diverse forme di orgoglio di classe o di gruppo che si sono sviluppate nella storia: dal girl power a «grasso è bello».

In adolescenza questa dimensione diventa fondamentale, i gruppi di amici, le associazioni, i gruppi di pari diventano una parte importane della definizione di se stessi e una fonte potente di influenzamento per farsi accettare e sentirsi parte di qualcosa.

Pertanto, in un mondo così frammentato le nostre definizioni di noi stessi sono messe a rischio e la reazione che possiamo vedere è quella di ritornare alla comunità ristretta e a definirsi come gruppi. Non a caso, il recente referendum per l’uscita della Gran Bretagna dall’Unione Europea ha visto tra chi ha votato a favore dell’uscita (leave) persone adulte (se non anziane) e con livello di istruzione basso. Anche qui la dimensione complessa dell’Unione Europea, la necessità di sviluppare un’identità comune e diversa rispetto a quella della propria nazionalità, così consolidate nella storia e nel retaggio delle tradizioni, la perdita di confini, al di là del timore dell’immigrazione e la convinzione di vincoli economici soffocanti (motivi certamente reali) hanno giocato un ruolo importante nel prendere una decisione apparentemente semplice in un mondo complesso, nella speranza di recuperare una appartenenza e una definizione di se stessi come britannici, contro la meno definita e forse dal loro punto di vista meno pregevole identità di europeo.

Questi tempi ci portano libertà, ci portano la possibilità di relazionarci direttamente con persone dall’altra parte del mondo, di comunicare fuori da ogni mediazione istituzionale, comprare attraverso internet un oggetto travalicando ogni confine e parlando con persone con lingue lontane dalle nostre, contattare e interagire direttamente con studiosi di altre nazioni, lavorare in luoghi lontani e percorrere confini in Europa senza più frontiere, tutto questo però comporta anche un nuovo modo di costruire il nostro senso di noi stessi, una maggiore necessità di consapevolezza di chi siamo.

Appartenere ci è connaturato, essere parte di un gruppo non è solo un limite o una forma di conformismo, ma anche una risorsa che contribuisce a definirci come persone.

Il mondo di oggi, la società attuale cambia le regole e toglie alcune categorie preconfezionate (operai, colletti bianchi, dipendenti, imprenditori, ricchi, nobili…) e i percorsi per appartenervi, ma chiede anche più capacità cognitive ed emotive per scegliere chi si vuole essere e orientarsi all’interno di un sistema senza confini.