Parlare di lavoro e carriera in questo particolare momento storico sembra quasi impossibile. I dati recenti vedono un aumento dell’occupazione ai livelli del 2007 (ovvero pre-crisi), ma sembra in realtà che sia anche aumentata l’età media dei lavoratori, grazie alla riforma Fornero che ha spostato in avanti l’età pensionabile e ha ritardato così l’uscita dal mondo del lavoro, mentre rimangono bassi gli ingressi dei giovani [per un’analisi approfondita vedi Dalla Zuanna e Giraldo 2017 su «lavoce.info»]. Al tempo stesso, come facevo notare in precedenza parlando di globalizzazione e identità, il mondo delle organizzazioni è profondamente cambiato. Non esiste più infatti quello che uno studioso ha definito «compromesso sociale di metà secolo» [Crouch 2001], riferendosi al secolo scorso, ovvero una specie di accordo implicito che prevedeva che ogni lavoratore potesse rimanere nell’organizzazione per tutta la propria vita lavorativa, con al massimo uno o due spostamenti in altre organizzazioni. A fronte di questa sicurezza e stabilità, il percorso e il salario erano sufficienti per mantenersi e mantenere eventualmente la propria famiglia. Queste organizzazioni, strutturate e impermeabili, comportavano una scarsa flessibilità del mondo del lavoro e carriere lavorative basate sull’anzianità.
Organizzazioni fluide e permeabili
L’innovazione tecnologica e la globalizzazione hanno comportato nuovi modi di lavorare. Connessioni internet ultraveloci, social network, cloud e condivisioni di piattaforme hanno cambiato il luogo di lavoro, che può essere fuori dalle mura delle aziende (basti pensare al telelavoro), come pure i tempi di lavoro, ora più in un flusso continuo sia negli orari sia nei giorni della settimana, e i modi di lavorare. Al tempo stesso la delocalizzazione e l’outsourcing hanno reso le aziende più snelle e i rapporti di lavoro meno strutturati: dai contratti a progetto ai voucher, per esempio.
Tutto questo ha prodotto organizzazioni in cui si entra e si esce, dove non si rimane per tutta la vita lavorativa; organizzazioni definite appunto «senza confini» (boundaryless organizations). Gli stessi percorsi di carriera ormai prevedono il fatto di entrare in una organizzazione, per poi uscirne, ed eventualmente rientrarci di nuovo dopo qualche anno a un altro livello. Non si appartiene più a una azienda e la relazione che si instaura con essa è più orientata allo scambio (denaro per prestazione) che non al costruire una relazione di reciproco impegno, fiducia e continuità. Ormai sono lontani i tempi in cui si regalava al dipendente un orologio per i 30 anni di fedele servizio, magari con incisa sul fondello il nome dell’azienda e una dedica nominale.
Quale carriera?
In un mondo paradossale, flessibile per i giovani in entrata e statico in uscita per i lavoratori anziani e maturi, c’è ancora posto per il concetto di «carriera»?
Se intendiamo la carriera come una scala, un percorso fatto di gradini successivi via via di maggiore responsabilità ed entrata economica, credo che non ci sia più spazio per pensare alla carriera. Ormai questa sequenzialità sembra essersi dissolta nella flessibilità di questo nuovo mondo del lavoro, oppure fermata nella rigidità di chi vorrebbe uscirne e non può.
Ma c’è un altro modo di pensare alla carriera e che ci ha insegnato lo studioso e sociologo Irvin Goffman, che ha guardato a un mondo ben diverso da quello del lavoro, ovvero al mondo della malattia mentale.
Osservando appunto le storie di persone diagnosticate con disturbi mentali, ha potuto tracciarne dei percorsi; ha individuato un filo rosso che univa le varie tappe che avevano portato quelle persone a essere dov’erano. Per esempio, all’inizio, nel momento in cui si presentava la malattia mentale, erano state in famiglia, poi ricoverate in un istituto, poi magari di nuovo a casa e, dopo un po’ di tempo, in un altro istituto, per fermarsi magari in esso. Si poteva leggere così nelle loro storie un percorso, una vera e propria carriera, che Goffman chiamò carriera interna o morale:
Una sorta di filo conduttore – di carattere sociale – seguito nel ciclo dell’intera vita della persona […]. […] una carriera, intesa in tal senso, non può essere ritenuta né brillante né deludente, né un successo né un fallimento [Goffman 1961].
La carriera così acquista un altro significato, quello di un percorso, che avviene sulla base di decisioni successive, decisioni che prendiamo spesso in modo automatico, non consapevole, ma che sono il riflesso di qualcosa di più di una casualità.
Caso o volontà?
«Mi è capitato in mano l’avviso di un concorso, che ho fatto, ed eccomi ora qui, nella pubblica amministrazione»; «Mi sono sposato ed è nata mia figlia, dovevo essere più a casa, così ho deciso di licenziarmi da quella azienda ed entrare in regione, dove alla fine sono rimasto e sono diventato dirigente»; «Sono capitata in questa azienda perché un’amica era stata assunta e mi disse che avevano bisogno di una segretaria e di provarci, ed eccomi qui a gestire un intero ufficio»; «Mio padre faceva il medico, alla fine mi sono iscritta anch’io a medicina e ora ho il mio studio». Se chiediamo a una persona come mai è dove è nel suo lavoro e come ha iniziato, facilmente troveremo risposte che imputano al caso, al destino o alla situazione famigliare l’inizio della propria attività lavorativa, ma se pensiamo alla nostra carriera interna, quella morale, e ci soffermiamo su di essa, possiamo anche trovare con sorpresa che le decisioni che abbiamo preso e continuiamo a prendere rispondono a una idea di noi stessi come lavoratori, ai nostri valori, ai nostri bisogni.
Un autore, Edgar Shein [il cui modello è stato ben descritto Toderi e Sarchielli 2015], ha proprio cercato di codificare le dimensioni che vanno a costruire il nostro Sé lavoratore, ovvero la rappresentazione di noi stessi in questa dimensione particolare che è legata al lavoro e alla professione.
Schein stesso ha individuato 8 aspetti, che sono possiamo considerare veri e propri costrutti psicologici legati alla nostra identità professionale, o, nella sua definizione, ancore di carriera, riassumibili in tre grandi famiglie: i bisogni, i valori, i talenti.
Nella famiglia dei talenti troviamo:
- àncora manageriale, ovvero, l’attenzione a un lavoro in cui si assumono responsabilità e si lavora per progetti e si gestiscono persone;
- àncora imprenditoriale, ovvero l’attenzione a costruire un lavoro tagliato su misura, a fondare una impresa a partire dalle proprie idee;
- àncora tecnico/funzionale, ovvero il desiderio di conoscere tutto di un certo lavoro, ruolo o mansione, relativamente a quello e quello solo, al fine di essere i più esperti in assoluto in quel lavoro.
Nella famiglia dei bisogni troviamo:
- àncora stile di vita: in questo caso l’attenzione nelle nostre scelte lavorative va a quei lavori che possano mantenere in equilibrio tempo di lavoro e tempo di vita, come nel caso del dirigente della pubblica amministrazione che abbiamo visto prima, ovvero non ci devono essere conflitti nell’alternanza tra casa e lavoro;
- àncora autonomia, basata sul bisogno di essere indipendenti nel proprio lavoro e di poter decidere le modalità con cui portarlo a termine, seguendo così una espressione del tipo: «Ditemi per quando lo devo fare, ma non come e quando lo devo fare»;
- àncora sicurezza e stabilità, legata al bisogno di prevedibilità nello svolgere il proprio lavoro, ma anche di continuità. L’aspirazione per chi ha questa àncora particolarmente alta è proprio quella di un posto di lavoro sicuro e di un contratto a tempo indeterminato.
Infine, nell’ambito dei valori troviamo le seguenti ancore:
- àncora dei valori che si caratterizza per cercare un lavoro che possa dare un contributo alla società e al prossimo, come possono essere le professioni di aiuto (medico, infermiere, assistente sociale, poliziotto, insegnante, ecc.);
- àncora pura sfida, legata appunto al valore della sfida e della ricerca di un lavoro che sia leggermente al di sopra delle nostre capacità in cui cimentarsi, individuando così nella competizione e nel provare se stessi in situazioni difficili il gusto e il valore della sfida.
Nel contesto italiano, attribuibile all’area dei bisogni, si sono anche identificate altre due ancore:
- àncora geografica, legata al bisogno di rimanere nel contesto e nella città in cui si è cresciuti e ci si è formati, oppure limitare al minimo i trasferimenti in altri contesti al di fuori di quello che si consce al meglio e in cui si vive e si sono messe radici;
- àncora occupabilità, intesa in questo caso come il bisogno di imparare nel lavoro e di acquisire conoscenze e competenze che possano essere spendibili in altri contesti lavorativi, aumentando così la possibilità di potersi spostare da un lavoro all’altro e da una organizzazione all’altra.
Dai valori alle scelte lavorative
Tutti noi abbiamo tutte queste dimensioni che vanno a costituire il nostro Sé professionale, ovvero la nostra identità professionale, tuttavia, alcune ancore possono essere più importanti di altre e questo comporta scelte differenti a seconda di quale è predominante.
Sviluppare la propria carriera lavorativa, costruire il proprio percorso e comprendere le scelte che facciamo significa pertanto, come indicato in questa iniziativa del sito, poter conoscere ed essere consapevoli di quali ancore sono importanti per noi, di quali sono le strutture della nostra personalità professionale che possono guidarci nelle scelte lavorative e possono anche definire il nostro livello di benessere all’interno di un lavoro o meno.
Le organizzazioni stesse hanno infatti le proprie ancore, e chiedono a chi ne fa parte di seguire aspetti che possono essere coerenti o meno con le nostre ancore. La distanza tra le nostre ancore e quelle dell’organizzazione in cui ci troviamo, o delle richieste che il mondo del lavoro ci fa, può essere un indice del nostro benessere o malessere. Per esempio, possiamo far parte di una organizzazione che lavora con l’estero e che ci chiede di essere flessibili e di spostarci per viaggi, se non addirittura di trasferirci in altre parti di Italia o dell’Europa o del mondo; al tempo stesso noi possediamo una àncora geografica molto alta, per cui desideriamo fortemente rimanere nel luogo in cui siamo. Questo comporta una forte incoerenza tra la nostra àncora (àncora interna) e quella dell’organizzazione (àncora esterna) che può darci un senso di disagio molto forte, la sensazione di non essere nel posto giusto e un senso di inadeguatezza nel rispondere alle aspettative dell’ambiente lavorativo altrettanto intenso.
Prendere il controllo della propria carriera
In un mondo del lavoro così fluido, flessibile e indeterminato è possibile prendere il controllo della propria carriera? In parte sì e in parte no.
Certamente entrare nel mondo del lavoro comporta anche la possibilità di poter essere sostenuti dalle istituzioni, questo sostegno oggigiorno non è sempre presente: mancano ancora in Italia ponti efficaci e funzionanti che colleghino scuola e lavoro, università e mondo delle organizzazioni, certamente questo è un aspetto che non si può non considerare.
È anche vero, però, che conoscere cosa muove le nostre decisioni, ovvero le nostre ancore, ci può aiutare a progettare la nostra carriera, a fare scelte consapevoli e orientate al perseguimento dei nostri obiettivi e alla soddisfazione dei nostri bisogni, senza per questo sentirci inadeguati perché, per esempio, cerchiamo la sicurezza e non la carriera verticale, oppure seguiamo i valori di aiuto e non quelli dell’imprenditorialità e viceversa.
Questo a mio avviso è il senso dell’essere imprenditori di se stessi, ovvero poter conoscere i nostri obiettivi e perseguirli con consapevolezza, costanza ed energia. Investendo così in quello che desideriamo essere e vogliamo fare: se, per esempio, per me è importante mantenere un equilibrio tra lavoro e famiglia/vita privata, allora cercherò un lavoro e una organizzazione che possa offrirmi questo equilibrio, consapevole che non posso conciliare questo aspetto con quello di una carriera verticale. Se per me è importante l’autonomia, posso perseguire un rapporto di lavoro basato sulla libera professione e la consulenza, rinunciando così alla ricerca di un contratto a tempo indeterminato. Se invece contano i valori di aiuto e di servizio alla comunità, allora studierò e cercherò un lavoro che mi permetta di sostenere questo valore, magari orientandomi al mondo della cooperazione e delle imprese sociali. E così via.
La carriera giusta
A differenza di quanto si può pensare, non esiste quindi una carriera giusta, un unico parametro di successo dato da quante persone abbiamo sotto di noi o da quanti soldi guadagniamo, ma esiste la carriera giusta per noi, coerente con l’idea che abbiamo di noi stessi, i nostri valori, i nostri bisogni e i nostri talenti. Una carriera pertanto indipendente da risultati oggettivi, ma fondata su scelte coerenti con il nostro modo di essere e di rappresentarci nel ruolo di lavoratore, questa sarà la nostra carriera morale, sempre e comunque di successo.